Fortnite. Quel nome è ormai sinonimo di ore passate a costruire fortini digitali e sparare a chiunque respiri nella tua direzione. È il gioco che ha conquistato il mondo, ma è anche un punto caldo di discussione per genitori, educatori e, sì, pure per noi cristiani. Non voglio fare il moralista da quattro soldi, ma ci sono cose su cui dobbiamo fare due chiacchiere.
Un gioco che cattura le menti (e il tempo) dei ragazzi
Fortnite ti prende e non ti molla. Sfide infinite, partite rapide e quella voglia di essere il migliore che ti spinge a dire: “Un’altra partita e basta”. Prima che te ne accorga, è passata mezza giornata. I ragazzi si isolano, diventano ombre di sé stessi, mentre il loro tempo, che potrebbe essere usato per scoprire il mondo, servire la comunità o persino annoiarsi (che ogni tanto fa bene), evapora in un universo virtuale.
Ma la vera domanda è: cosa stiamo sacrificando? relazioni reali? lo studio? la loro crescita spirituale? Non ci vuole un genio per capire che qualcosa non torna.
Simboli, stranezze e un pizzico di inquietudine
E poi arrivano i contenuti. Un evento in Fortnite, chiamato Fortnitemares, ha fatto alzare più di un sopracciglio. Ti trovi a resuscitare un compagno, ma solo se sei disposto a “vendere l’anima”. Che sia uno scherzo o no, dobbiamo chiederci: cosa entra nella mente dei ragazzi? Che messaggio passa?
Non sto dicendo che ogni ragazzino che gioca a Fortnite finirà a sacrificare galline a mezzanotte, ma sappiamo che simboli e storie hanno potere. E non possiamo ignorarlo.
Virtuale o reale?
Fortnite crea un mondo parallelo. Una fuga. E, ok, va bene ogni tanto scappare un po’ dalla realtà. Ma quando quella fuga diventa una prigione? Molti adolescenti usano il gioco come sostituto di relazioni reali, vivendo in un mondo costruito da altri, invece di costruire il proprio.
Proverbi 27:17 dice che il ferro affila il ferro. Ma se il ferro dei nostri ragazzi non incontra mai il ferro di altri? Se restano bloccati in una stanza, con un controller in mano, chi affilerà il loro carattere?
Non è una caccia alle streghe
Fortnite non è il diavolo in pixel. Non è nemmeno l’eroe. È uno strumento. E come ogni strumento, dipende da come lo usi. Ma qui entra in gioco il nostro ruolo: genitori, educatori, pastori. Non siamo qui per proibire e basta. Siamo qui per educare, per ascoltare e per guidare.
Parliamo con i ragazzi. Chiediamo loro: “Ti fa bene questo gioco? Ti aiuta a crescere o ti tiene bloccato?”. Aiutiamoli a vedere il mondo reale come il grande campo da gioco che Dio ha creato per loro.
Fortnite come opportunità?
Ecco il colpo di scena. Fortnite può essere anche un’opportunità. I giovani cristiani possono essere una luce in quel mondo digitale. Possono mostrare il carattere di Cristo anche lì, tra una costruzione e un headshot. Non dobbiamo solo vedere il pericolo; dobbiamo anche vedere il potenziale. Ad ogni modo, meglio dare uno sguardo a quest’articolo del SUN, offre più di una dritta interessante a noi genitori.
Alla fine, cosa conta davvero?
La questione non è Fortnite. È il cuore dei nostri ragazzi. È la loro relazione con Dio, il loro tempo, le loro passioni. Se qualcosa – un gioco, un hobby, qualsiasi cosa – li allontana da ciò che è vero, buono e bello, allora sì, dobbiamo parlarne. Ma con amore. Con passione. Con quella stessa grazia che Cristo ha mostrato a noi.
Perché, alla fine, ciò che vogliamo è che vivano una vita abbondante. E questa, spoiler: non si trova in una vittoria reale, ma in una relazione reale con Gesù.
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